Aveva dato in affitto la vecchia casa in cui erano vissuti i suoi genitori, così come l'avevano lasciata, piena di libri, scartoffie, carabattole e polvere. Lei era andata a vivere in un monovano al terzo ed ultimo piano di una palazzina di edilizia popolare, in pieno centro storico, eredità di sua nonna. Per qualche tempo era stata il covo di un nordafricano che, a quanto le aveva riferito una condomina con grande disappunto, di notte invitava amici dall'aria sospetta e tutti insieme, facevano chiasso. Le pareti erano ancora ricoperte di poster e tessuti, qua e là strappati. L'odore inconfondibile della cannabis le aveva impregnate. Un materasso chiazzato di macchie indefinibili giaceva in un angolo della stanza. A un tavolo di legno chiaro, ch'era stato di sua nonna, mancava una gamba. Nella piccola veranda, dov'erano collocati un fornello da campo e il lavello, uno scarafaggio grosso e lucente la salutò sbucando da un tubo. "Qui starò bene" pensò Maddalena inspirando l'aria della sera che entrava da un vetro scorrevole che aveva aperto, e insieme all'aria entravano luci, colori e suoni di vita disordinata e allegra, anche se con un fondo misero che per un momento percepì come triste. Disinfettò l'armadio alla bell'e meglio e vi sistemò le paia di mutande e calze che si era portata. Una coppia di ante era rimasta chiusa, l'interno miracolosamente intatto: custodiva le pellicce, i golfini e i migliori vestiti di sua nonna. Lì dentro l'odore di cannabis lasciava il posto a quello della naftalina, che aveva preservato i capi in perfette condizioni. Le sembrò persino di percepire il profumo di sua nonna, ch'era di rosa e di pulito. Andò in bagno. Si sentì felice. Guardandosi allo specchio sopra il lavabo, vide ciò che tutti vedevano incontrandola: un viso rotondo e pallido, di colorito giallino, con occhi piccoli e neri, dolcissimi; orecchie sembrava non averne, talmente erano piatte, ben aderenti al capo; un collo magro e lungo che usciva di sbieco da una cassa toracica contorta dalla scoliosi. Il resto, lo conosceva a memoria: due gambette ad x che a malapena la reggevano in piedi, e che qualche volta l'avevano fatta cadere, al termine delle quali c'erano le sempiterne scarpe ortopediche color topo che le avevano confezionato su misura quando aveva quindici anni, e che da allora aveva indossato sempre, estate ed inverno, a casa e fuori, perché le avevano detto che avrebbero migliorato il suo equilibrio e alleviato i dolori alla schiena, e lei si era fidata: erano diventate parte di lei, le toglieva solo per infilarsi sotto le coperte, dove portava con sé una borsa d'acqua calda anche in estate a causa della circolazione pigra che le faceva sentire sempre freddo, soprattutto a mani e piedi.
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